Hybris e Dike, due estremi dell’universo mitologico in cui si muovono gli uomini di ogni tempo, la sregolatezza della dismisura e il delfico “nulla di troppo”.
Nelle fotografie di Eros De Finis c’è la vita di ogni giorno, i segni del tempo, le cose gettate via, i colori ossigenati dell’acqua in equilibrio su un filo di ruggine, i segni della pioggia, le amebiche incrostazioni sui vecchi muri che originano forme, che producono visioni di cose altre.
Se Cartier-Bresson si paragonava a un arciere zen che deve diventare il bersaglio per riuscire a colpirlo; “bisognerebbe pensare prima e dopo, – dice, – mai mentre si scatta una fotografia”, per De Finis il troppo pensiero non offusca affatto la trasparenza della sua consapevolezza, né tanto meno ne viola l’autonomia di ciò che sta fotografando. Il suo, è un costante lavoro di rettifica e un continuo mettersi in gioco, quando di fronte all’immancabile scelta, deve decidere se accettare l’errore o la sua correzione.
De Finis traccia così una via che lascia allo spettatore la libertà di godere appieno di un preciso e personale messaggio, sia quando rappresenta l’Orwelliana disperazione di un mondo senza più speranza, dominato dalla falsificazione dei fini, sia quando racconta la “sua Terra”, piena della gioia delle cose semplici che si ripetono tutti i giorni, di archetipi e tradizioni ancora presenti in modo consapevole o inconsapevole.
Nei suoi scatti De Finis lavora sulla “sintesi”: volutamente contrapposta al metodo “analitico”, che, mitizzando la specializzazione finisce il più delle volte nell’inaridimento tecnicistico della mancanza istintuale.
Nelle sue fotografie sceglie di volta in volta la strada da seguire, senza preordinazione, operando scelte che potranno rivelarsi giuste o sbagliate, in un continuo esercizio filosofico propedeutico al raggiungimento della Libertà (Verità).
Tutto ciò nella consapevole condizione di chi sa che quello che cerca non verrà mai trovato, ma con la determinazione di chi non smetterà mai di cercare.
Hybris and Dike, two extremes of the mythological universe in which men from every age move, the crumbling of excess and the Delphic “nothing overboard”.
In Eros De Finis’s photography we find our everyday life, the signs of time, discarded things, the oxygenated colours of water balanced on a line of rust, the signs of rain, the amoebic incrustations on old walls which give rise to shapes, which produce visions of other things.
If Cartier-Bresson compared himself to a Zen archer who has to become the target in order to be able to hit it: “one should think both before and after, – he says, – never while taking a photograph”.
For De Finis over thinking does not obscure the transparence of his knowledge, nor does it violate the autonomy of what he is photographing. His is a continual work of rectification, of getting involved. When faced with the ever present choice, he must decide whether to accept the mistake or his correction.
De Finis therefore traces a path which gives the spectator full liberty to completely enjoy a precise and personal message, both when he presents the Orwellian desperation of a world without hope, dominated by the falsifications of the refined, and when he depicts “his Earth”, full of the joy of simple things which are repeated everyday, of archetypes and traditions which
are still present whether we are aware of it or not.
In his pictures De Finis works on the “synthesis”: deliberately opposed to the “analytical” method, which, by mythologizing the specialization usually finishes in a drying up of technique and instinctual deficiency. In his photographs the road to follow is chosen each time, without any pre-order, taking decisions which could turn out to be right or wrong, in a continual, philosophical, preparatory exercise in order to reach Freedom (Truth).
All this is carried out with the awareness that what he is looking for will never be found, but with the determination of one who will never stop searching.